Il Petrolio di Pier Paolo Pasolini: conversazioni con István Puskás

Pasolini Olaj.jogPier Paolo Pasolini rappresenta una figura cardine del Novecento italiano, un credito conquistato grazie alla sua incredibile e fervida attività intellettuale che ha spaziato in vari campi dell’arte e non solo: come dimenticare il suo contributo alla poesia, alla critica letteraria, alla letteratura, alla politica, al teatro e al cinema? Considerando il suo indiscusso prestigio internazionale affermatosi anche per alcuni tragici eventi di cronaca che hanno accompagnato la sua esistenza (in ultimo quello del suo brutale assassinio), abbiamo avuto il piacere di intrattenere una breve chiacchierata con István Puskás, docente presso il Dipartimento di Italianistica dell’Università di Debrecen, su questo gigante della cultura italiana e della percezione dell’opera pasoliniana in Ungheria. Il Prof. Puskás, inoltre, ha di recente tradotto la prima edizione ungherese di uno dei romanzi più dibattuti e controversi di Pasolini, Petrolio (Olaj in ungherese), e rappresenta uno tra i suoi conoscitori più profondi nel mondo accademico ungherese. Quale occasione migliore per aggiungere elementi di riflessione ad alcune tematiche spesso toccate in Italia che meritano un dibattito di respiro internazionale più ampio?

Pier Paolo Pasolini è certamente una delle figure più importanti del Novecento italiano. Le sue opere, così come la sua storia, ancora oggi destano un certo interesse per un’ampia fascia di lettori sia per i contenuti emersi da una florida attività culturale che per la tragica scomparsa sulla quale si addensano numerose ombre. Qual è stata la percezione in Ungheria del suo lavoro intellettuale e della sua vita dagli inizi della sua attività fino ad oggi?

Pasolini in Ungheria era noto prima di tutto come regista e i suoi film costituivano un punto di riferimento importante per gli intellettuali magiari degli anni settanta-ottanta in quanto rendevano in qualche maniera un certo senso di libertà. In generale ogni film arrivato dall’altra parte della cortina di ferro offriva questa sensazione, lo spirito di una libertà intellettuale tipica del periodo che veniva percepito in Ungheria naturalmente anche attraverso i film di Pasolini. Egli rappresentava un esempio chiaro di come si modificavano i prodotti culturali penetrando in un nuovo contesto. Pasolini, critico fermo dei movimenti del ’68 in Ungheria, veniva visto come parte di quella rivoluzione culturale. Prima di tutto la sua Trilogia della vita, proiettata pubblicamente nelle sale cinematografiche con la rappresentazione aperta del corpo e della sessualità, in Ungheria veniva concepita come l’avvento di tale rivoluzione e riusciva ad attirare l’attenzione di un numero relativamente considerevole di spettatori interessati alla cosiddetta rivoluzione sessuale. Altri suoi film – a partire dai primi lavori fino a Teorema – invece erano percepiti come la conferma della tesi secondo la quale il capitalismo fosse corrotto e decadente.
Oltre l’opera cinematografica, invece, la sua attività letteraria è rimasta quasi del tutto ignorata, sconosciuta fino agli ultimi anni. È strano perché dalle librerie ungheresi non mancavano i libri degli autori italiani contemporanei. Questa anomalia potrebbe spiegarsi nell’estrema difficoltà della traduzione dei testi pasoliniani. Per le generazioni nate dagli anni ottanta in poi resta invece del tutto ignoto anche questo capitolo della storia del cinema (non solo Pasolini, ma tutto il cinema dell’epoca). Soltanto dieci anni fa la nota e prestigiosa casa editrice Kalligram ha deciso di avviare una collana per colmare questa assenza pensando di basarsi sul mito del regista. Dopo aver pubblicato sei volumi dobbiamo ammettere che il tentativo risulta, se non del tutto fallito, poco fruttuoso. Nonostante l’attualità incredibile dei suoi pensieri, delle sue analisi sul neocapitalismo, quasi nessuno trova rilevante l’opera di Pier Paolo Pasolini in Ungheria. Non mancano le ragioni, certo, possiamo e dobbiamo provare a dare una spiegazione, ma ciò non giustifica un risultato che alla fine rimane deludente.

Per quale ragione tra tutte le opere di Pasolini ha voluto tradurre Petrolio? Qual è la sua attualità e quale riscontro si spera possa avere tra i lettori ungheresi?

Da traduttore è una sfida difficilissima rendere in un’altra lingua e in un  contesto storico-culturale differente questo testo meraviglioso e terrificante di Pasolini, sebbene, come ho già accennato, Petrolio sia estremamente attuale. Pasolini quaranta’anni fa aveva capito benissimo i meccanismi della societá del consumo e del mondo in cui viviamo. Da critico letterario lo trovo molto importante perché proprio parallelmente con la filosofia e la critica francese ed anglosassone ha avuto delle intuizioni brillanti su questioni quali il corpo, il potere, il desiderio, tutto ciò che la scienze cataloga al giorno d’oggi sotto l’etichetta di cultural turn. Non vorrei mistificare né assolutizzare l’universo pasoliniano, ma dobbiamo dire che pur non essendo in contatto con certi ambienti intellettuali dell’Occidente, ispirandosi alle stesse fonti, maestri come Gramsci, Freud, Sartre, Fanon, Pasolini raggiunse risultati simili ai maggiori pensatori del secondo Novecento (Foucault, Dubord, Deleuze, Guattari, Said, Buttler e altri). Petrolio intendeva essere la grande sintesi di tutte le sue esperienze fatte sul mondo, ma questa è una definizione riduttiva: abbiamo a che fare con un testo meraviglioso, un’espressione linguistica e poetica magnifica, pagine che hanno scalato la vetta della narrativa italiana e forse mondiale dell’epoca.
In merito al riscontro non nutro grandi illusioni, del resto la scarsa ricezione è una conferma dei pensieri critici di Pasolini. Ma dobbiamo anche dire che si tratta di un testo estremamente difficile, sebbene si registri un progressivo allontanamento della classe intellettuale ungherese che oggi sembra quasi del tutto scomparsa.

In Petrolio, così come in tante opere di Pasolini, emerge il tema dell’uomo e del suo rapporto con il potere: crede che le forme di propaganda e il cinismo del potere abbiano subito un’evoluzione oppure la lezione di Pasolini resta ancora la più lucida sul campo?

Penso che ciò che insegna Pasolini sul rapporto tra il potere e l’uomo, ovvero il cittadino dello stato moderno nell’era del neocapitalismo, del consumismo in sostanza, sia ancora valido: viviamo nello stesso sistema che delinea Pasolini quarant’anni fa, nella società mediatica (la società dello spettacolo come la definisce Dubord), culturalmente omologata ma nello stesso tempo priva di punti di riferimento, di estrema complessità, un labirinto intricato che contiene sostanze inafferrabili. Ciò che in me rafforza questa opinione è proprio la letteratura italiana contemporanea che dichiaratamente si ispira ai pensieri di Pasolini, penso ad autori come Vasta, Genna, i Wu Ming.

Un’altra tematica cara a Pasolini è la sessualità del potere. Nel romanzo entrambi i Carlo intrattengono una serie di rapporti sessuali e omosessuali (addirittura uno dei due si tramuta in una donna): perché il potere è così ossessionato dal sesso? Per quale ragione esso tende ad abusarne e poi reprimerlo?

Per capire meglio Pasolini possiamo fare leva a un suo grande coetaneo francese, Foucault, che studia e spiega acutamente la nascita e i meccanismi del potere dello stato moderno occidentale. In breve uno degli elmenti base di questo sistema è il controllo totale sul corpo umano, compreso anche la sessualità. Foucault e altri come Deleuze, Guattari, ma anche i femministi, sostengono che ci sia un legame fortissimo tra i meccanismi del potere e il sesso. Il punto comune in sostanza è il desiderio (qui arriviamo alle radici psichiche dell’esistenza umana, cioè all’esperienze della psicoanalisi da Freud a Lacan). Penso che Pasolini arrivi proprio a questo punto: visto che per lui il desiderio costituisce un elemento fondamentale dell’esistenza umana ed essendo da sempre molto impegnato nelle vicende della politica non era difficile collegare questi due fili. In sostanza: il rapporto sessuale è sempre un gioco di potere e nel potere c’è sempre il desiderio, il desiderio di impadronirsi dell’altro. Si tratta di due campi dello stesso gioco che costituisce l’esistenza umana, l’eterna ed impossibile voglia di superare la distanza tra l’individuo e l’altro e parallelamente costituire un se stesso attraverso il rapporto, essere ciò che si riflette nell’occhio dell’altro.

Sempre a proposito della sessualità, in Petrolio emerge anche una singolare posizione del potere nei riguardi del sesso: esso è una forza femminina che si concede passivamente, pertanto la parte che durante l’amplesso trae maggiore soddisfazione. Il potere in questo gioco sessuale accetta le regole implicitamente dettate dalla sua controparte, in altre parole si lascia sessualmente sottomettere. Non crede che sia un’immagine contraddittoria nel pensiero di Pasolini?

No, non credo. A mio avviso Pasolini in questa dinamica riesce e trovare un altro elemento che ho provato a riassumere prima, la continua instabilità del gioco e suoi dei ruoli. Filosofi e critici contemporanei come Homi Bhabha e Judit Buttler ci insegnano che essi sono sempre costruzioni e come tali non sono altro che tentativi continui di creare stabilità nell’ambito di un’esistenza che n’è assolutamente priva. Insomma chi sta sopra e chi sta sotto, chi domina chi viene sottomesso, nulla è mai del tutto prederminato, anzi gli sforzi di stabilire ruoli (anche gender) servono a velare il volto vero dell’esistenza. Ma il velo si strappa prima o poi. Per questo penso che uno dei massimi capitoli della letteratura novecentesca sia in Petrolio l’episodio di Carmelo.

Come relazionarsi a Petrolio in quanto opera incompiuta? Cosa lascia al mondo questo testamento “obbligato” di Pier Paolo Pasolini?

C’è sempre la tentazione di porre la domanda come sarebbe un Petrolio compiuto. Io penso che proprio questo suo stato frammentario riesca ad essere qualcosa di emblematico della nostra epoca in cui pare che non esistino delle strutture fisse, complete, solide, che esista solo una complessità inafferrabile di cose. Ecco l’esperienza ci aiuta a capire perché l’uomo soffre e fatica tanto a creare punti e linee, tracciare limiti fissi attorno a se stesso e al mondo che lo circonda.

Federico Preziosi

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